mercoledì 11 giugno 2014

Maps to the stars (Cronenberg 2014)

David Cronenberg torna con un buon film che tratta con durezza davvero implacabile Hollywood e soprattutto lo star system cui fa riferimento il titolo.
Ha proprio bisogno di una mappa per le stelle l'inquietante Agatha Weiss (Mia Wasikowska), che torna dalla Florida a Los Angeles dopo un periodo in sanatorio poiché colpevole di aver dato fuoco alla casa in cui viveva con i genitori e il fratello e s'imbatte in Jerome (Robert Pattinson), un autista che, come tutti lì, ha velleità artistiche da attore e da sceneggiatore. Agatha ha fatto amicizia su Twitter con Carrie Fisher e, grazie alla sua segnalazione, riesce a diventare l'assistente personale di Havana Segrand (Julianne Moore), altro modo per avvicinare quel mondo fatato pur se non dalla porta principale.
Da questa, invece, è entrato Benji (Evan Bird), il fratello tredicenne di Agatha, divenuto celebre come protagonista del film Cattiva babysitter, di cui si sta per girare l'immancabile seguito. I genitori, Stafford Weiss (John Cusack) e sua moglie Christina (Olivia Williams), sono totalmente presi dalla carriera del figlio maschio, soprattutto dai suoi guadagni, e sembrano aver dimenticato l'esistenza di Agatha.
Le vite dei personaggi sono intrecciate e non solo per le parentele, poiché Benji e Havana hanno la stessa manager, l'esperta Jeannie, mentre Stafford, che fa da massaggiatore-psicologo dei divi, ha tra i suoi clienti la stessa Havana, in crisi perché in attesa di ottenere la parte che era stata della madre, Clarice Taggart (Sarah Godan), morta in un incendio, nel rifacimento di quello che sembra essere un classico degli anni sessanta, Acque rubate.
Impossibile guardare questo film da appassionati di cinema senza provare a cercare dei paralleli con la realtà. Il rimando più evidente è quello di Benji, che sembra una perfetta trasposizione di Macaulay Culkin, già star ad un'età in cui non si è in grado di gestire la fama e in cui basta pochissimo per sentirsi spodestato, cosa che nel suo caso sembra accadere con il piccolo Roy, un bambino che a suo avviso gli sta rubando le migliori linee di sceneggiatura e gli applausi del pubblico e che, con le sue lentiggini e capelli rossi, ricorda tanto Ron Howard che a nove anni era già protagonista con Glenn Ford di Una fidanzata per papà (Minnelli 1963).
Lo stesso Jerome, che all'inizio della storia ospita Agatha sulla sua limousine, nonostante la ragazza ci tenga a precisare di aver chiesto una limousine allungata, e l'accompagna alle falde della collina con la celeberrima scritta di Hollywood, dove un tempo era la casa dei Weiss andata a fuoco, potrebbe evocare Brad Pitt che prima di essere una star fu anche autista di limousine. Sicuramente, però, Damien Javitz, il regista che ha in mano il progetto di Acque rubate, co-prodotto in Canada, è "uno che fa film strani", dettagli che lo apparentano proprio a David Cronenberg.
I capricci che scatenano gelosie e reazioni smisurate non sono caratteristiche dei soli minorenni come Benji, poiché allo stesso modo si comporta Havana, mai veramente cresciuta, vissuta all'ombra di una madre più celebre di lei e capace di fare di un ruolo in un film una ragione di vita, fino a cantare gioiosamente dopo la morte di un bambino, solo perché potenzialmente utile alla sua carriera. La grande insicurezza e il rapporto di sudditanza nei confronti della madre, la cui stella brilla sull'Hollywood Walk of Fame, fanno pensare ad un'identificazione con Melanie Griffith e alla sua hitchcockiana genitrice Tippi Hedren.
Quasi tutti i personaggi principali hanno delle allucinazioni e necessitano di cure psicologiche: Benji vede una sua giovane fan morta in ospedale; Havana vede la madre, ovviamente quando era giovane e bellissima; Agatha dice di vedere dei bambini, che scompaiono solo quando gioca con il fratello al rito del matrimonio, in una finzione che si rivela comunque meno perversa della realtà.
Tutte queste visioni sono evidentemente favorite dagli psicofarmaci, che costituiscono il trait d'union con gli altri film di Cronenberg, in cui l'ossessione del contagio e delle dipendenze non mancano mai, cosicché in questo caso i vari personaggi citano Zoloft, Xanax, Vicodin, ecc.
Alla madre di Havana la sceneggiatura riserva un paio tra le migliori battute, che Clarice pronuncia proprio contro la figlia, a cui non a caso precisa che "l'inferno è solo un mondo senza narcotici" e subito dopo intima "fatti una vita oppure fatti una morte".
La sceneggiatura, però, è arricchita anche dai versi di Libertà di Paul Eluard, che i fratelli Agatha e Benji ripetono come un mantra in una sorta di dialogo a distanza, e che recita anche Clarice in una delle scene dell'originale Acque rubate, nell'ennesima connessione tra i personaggi: "Sui miei quaderni di scolaro/Sui miei banchi e sugli alberi/Sulla sabbia e sulla neve/Io scrivo il tuo nome/[...]Sul rinnovato vigore/Sullo scomparso pericolo/Sulla speranza senza ricordo/Io scrivo il tuo nome/[...]Su ogni carne consentita/Sulla fronte dei miei amici/Su ogni mano che si tende/Io scrivo il tuo nome/Libertà".
Oltre la buona sceneggiatura di Bruce Wagner, va segnalata l'ottima prova degli attori che, come spesso capita nelle pellicole di Cronenberg, sono costretti ad andare sopra le righe: questo vale per John Cusack, che rende alla perfezione il ruolo di padre ossessionato dal controllo del successo del figlio; per Olivia Williams, che in nome di quel successo si è ritrovata a dover rinunciare ad una figlia; per Mia Wasikowska, la cui instabilità è evidente nel suo sguardo in ogni inquadratura, accresciuta, se possibile, da una mise dai lunghi guanti alla Rita Hayworth, che nella finzione le permettono di tenere coperte le gravi ustioni dell'incidente da lei provocato (per i costumi si segnala il lavoro di Denise Cronenberg); un po' meno, invece, per Robert Pattinson, che sembra essere solo un elemento di continuità con Cosmopolis (Cronenberg 2012), ritrovandosi anche stavolta a fare sesso in auto. 
Su tutte, però, spiccano le prove del giovanissimo Evan Bird, algido come una perfetta icona cronenberghiana, e di Julianne Moore, capace di osare e di varcare confini che una star del suo calibro e della sua età raramente decidono di oltrepassare rimettendosi in discussione: meritatissimo in questo senso il premio come migliore attrice ricevuto a Cannes.
Il film non sarà ricordato come uno dei capolavori del regista canadese, ma è comunque un'opera di gran livello che si pone, come tutta la filmografia di Cronenberg, in forte contrasto con l'idealizzazione di Hollywood, che ne esce con i suoi lati peggiori in evidenza: l'assenza di una morale, l'arrivismo a tutti i costi, la mancanza di struttura e di personalità di molti suoi rampolli...

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