lunedì 27 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street (Scorsese 2013)

Non c'è alcun dubbio: siamo ai confini del capolavoro!

Martin Scorsese ha creato un'opera di cui si parlerà per molto tempo, un film in cui tutti gli elementi si assemblano in maniera così puntuale che dopo tre ore di film l'unico rimpianto dello spettatore è che sia finito troppo presto.
Il soggetto è ricavato dal libro di Jordan Belfort, broker nato nel Queens e diventato uno degli uomini più ricchi del mondo attraverso speculazioni finanziarie che lo hanno condotto anche in galera. L'adattamento è firmato dal bravissimo Terence Winter, già collaboratore di Scorsese per la serie Boardwalk Empire.
Il film inanella decine di scene che meriterebbero attente descrizioni ed è davvero difficile fare una selezione che possa in alcun modo inscatolare ciò che viene raccontato, sin dal primo giorno di lavoro di Jordan a Wall Street, quando il suo capo, Mark Hanna (uno splendido Matthew McConaughey), gli spiega le regole del gioco, che presuppongono "cocaina e troie", "due seghe al giorno", tenendo persino a precisarne la posologia (una al mattino e una dopopranzo) e un indimenticabile mantra del denaro, irriproducibile in forma scritta, ma che vede accompagnare un semplice motivetto a dei ritmati colpi di pugno sul petto.
McConaughey-Hanna nel suo mantra del denaro
La svolta per Jordan avviene paradossalmente il 19 ottobre 1987, data in cui inizia ad operare come broker, ma giorno più buio della borsa newyorchese dopo il 1929, con il crollo della Rotschild. Trovato un altro lavoro come consulente finanziario, Belfort riesce a far successo grazie alla grande capacità di imbonitore telefonico, che gli permette di vendere qualsiasi azione, soprattutto le temibili Penny Stock, di nessun valore, ma che danno percentuali enormi ai promotori, truffando la povera gente. Da questo momento in poi la storia è un'incredibile escalation che lo porta a creare la Stratton Oakmont, società i cui membri sono inizialmente raccattati da Jordan tra amici e conoscenti senza arte né parte (per primo Donnie, interpretato da un bravissimo Jonah Hill), a cui insegna letteralmente il "mestiere". In pochi mesi il successo sarà totale e porterà Jordan e i suoi colleghi ad alzare il proprio tenore di vita all'inverosimile: case da urlo, droghe, donne e auto bellissime (Jordan compra una Ferrari Testarossa bianca, come quella di Miami vice), e tanto altro.
Questa lunga parte del film descrive la bramosia di potere che trasforma gli uffici della Stratton in luoghi in cui tutto diventa possibile, spesso per il solo divertimento dei soci fondatori e non solo, in un interminabile festival dell'eccesso: ottenere di far rasare, davanti a tutti, la testa di una collega che accetta in cambio di diecimila dollari  per "rifarsi le tette"; invitare majorette, spogliarelliste e prostitute con cui i dipendenti fanno sesso ovunque (ascensori, scrivanie, ecc.); essere costretti a proibire il sesso in ufficio in determinati orari (con tanto di geniale segnale di divieto affisso); lanciare nani, equipaggiati di casco, contro un bersaglio al cui centro spicca il simbolo del dollaro, spiegando quasi scientificamente che è proprio la struttura dei nani ad essere perfetta per quel gioco, poiché "sono più pesanti sopra, come una freccetta". Il tutto costellato dal continuo ricorso alle droghe, di cui passiamo in rassegna con i protagonisti, in una vera e propria antologia dello "sballo", cocaina, crack e tanto altro, ma soprattutto il qualuude, farmaco sintetizzato in India ("non da quelli con le piume", ci tiene a precisare la voce di Jordan).
Altro spartiacque è l'incontro con Naomi Lapaglia, la bellissima "bastarda" italo-tedesca-inglese-olandese interpretata dall'australiana Margot Robbie, per cui Jordan perde la testa (proprio come il Tony Montana-Al Pacino lo faceva nello Scarface di De Palma per Elvira Hancock-Michelle Pfeiffer) e che sposerà dopo aver lasciato la moglie, non prima di un addio al celibato da due milioni di dollari. La coppia insieme, se possibile, alza ancor di più il tenore di vita, con tanto di yacht (con eliporto in cima) intitolato a Naomi e un'enorme proprietà in cui andare a vivere, nella quale si adegua agli eccessi anche il maggiordomo gay che in un periodo di assenza dei padroni organizza festini a base di sesso invitando decine di uomini dell'evocativo Lollypop Club.
Il matrimonio dopo qualche tempo comincia ad incrinarsi, come sintetizza la scena cult in cui Margot punisce il marito per una scappatella bandendolo dalle sue grazie, ma provocandolo sempre più sensualmente, tanto da ricordare la Seigner di Luna di fiele. Per comprendere il progetto di Scorsese questa sequenza è perfetta, perché quello che potrebbe essere interpretato come uno dei momenti più drammatici della vita della coppia protagonista, viene trasformato in una scena farsesca, dai toni accentuati, per di più ambientata, con uno splendido contrappunto, nella stanza tutta rosa della piccola Skylar e, infine, resa comicamente esilarante grazie alla presenza di un orsacchiotto di peluche, nei cui occhi Jordan ha fatto inserire una telecamera per la security, cosicché l'intero siparietto scabroso è rivelato ai due omoni in portineria, entrambi chiamati Rocco.
La parte finale del film, infine, racconta il crollo di Jordan Belfort, il suo arresto da parte dell'FBI (inscenato da Scorsese durante la realizzazione di uno spot televisivo), che lo costringe a collaborare e a tradire i suoi amici per limitare i danni a pochi anni di carcere in Nevada, dopo i quali lo vediamo ospite di una conferenza sull'arte della persuasione...

Lo straordinario DiCaprio è in scena dall'inizio alla fine della pellicola, spesso anche nella versione di narratore off, che qualche volta diviene anche in guardando direttamente in camera, coinvolgendo direttamente il pubblico. Di grande impatto sono anche i suoi discorsi ai dipendenti della Stratton Oakmont, in cui assume i toni del predicatore, fino al più riuscito, quello in cui promuove le nuove azioni di un produttore di scarpe, Steve Madden, convincendo ed evangelizzando il suo uditorio in un vero e proprio "discorso della montagna" virato alla speculazione, in cui però si paragona a Willy Wonka, balla come gli Umpa Lumpa e ripete quello che può essere definito lo slogan della compagnia, secondo cui chi non è disposto a rischiare con la vita del broker, si merita di lavorare da McDonald's. Ma DiCaprio è perfetto e clamorosamente sopra le righe, come questo film esige, sempre: quando sotto effetto di droghe viene immobilizzato dal capitano a bordo di un aereo; quando seduce in un parco londinese la vecchia zia di Naomi, Emma, per meri obiettivi utilitaristici; quando dialoga con l'agente dell'FBI che cerca di incastrarlo in una scena splendidamente recitata e che inizia con toni rispettosi e cordiali per terminare in urla, offese e gesti inconsulti.
Oltre a tutto questo, recita una sequenza che da sola gli dovrebbe valere l'assegnazione dell'Oscar, quella in cui assume insieme a Donnie alcune pastiglie di Lemmon 714, qualuude ormai fuorilegge da anni e che per questo fa effetto con molto ritardo. Scorsese descrive magistralmente le singole fasi della reazione al farmaco e DiCaprio le interpreta tutte in maniera indimenticabile, dallo stordimento al farfugliamento, dalla "paralisi celebrale" a quella fisica, in cui si ritrova a dover strisciare e rotolare per una scala per raggiungere la sua Lamborghini Countach che proverà a guidare con esiti disastrosi.
Altrettanto numerose sono le linee di sceneggiatura che andrebbero mandate a mente, ma se ne può fare solo una ristretta cernita. La moglie di Jordan, per esempio, dopo un lungo articolo di critica contro il marito definito dai giornalisti un "Robin Hood perverso" lo rassicura: "io lo so che non esiste la cattiva pubblicità". Splendido è anche l'inserimento nella storia della figura del padre di Jordan, un "Mad" Max interpretato dal regista Rob Reiner, azzeccatissimo nelle vesti di una sorta di controllore degli eccessi della Stratton, inevitabilmente destinato a perdere, ma dai risultati scenici esilaranti, come quando parlando di sesso con il figlio l'argomento scivola su dettagli di parruccheria intima femminile, in cui i due confrontano le proprie esperienze, fino all'amara metafora sul matrimonio paragonato ad un profumo che, quindi, "dopo un po' svanisce".
Dalla pregevole sceneggiatura arrivano anche alcuni omaggi non proprio lusinghieri per intere nazioni: gli Stati Uniti, sbeffeggiati da Donnie che, dopo l'arrivo di un mandato di comparizione, urina nel cestino in cui ha gettato i fogli al grido di "vaffanculo Stati Uniti" urlato da tutti i dipendenti; la Svizzera, dove i membri della Stratton portano il denaro sporco, con la collaborazione connivente del banchiere Jean-Jacques Saurel (Jean Dujardin di The Artist); ma anche per l'Italia, nelle cui acque viene salvato l'equipaggio dello yacht di Jordan durante una tempesta e che ispira nel protagonista la riflessione che "il bello di essere salvati dagli italiani è che ti danno vino rosso, da mangiare e poi si balla", peraltro sulle note di Gloria di Umberto Tozzi, insospettabile presenza in una bellissima colonna sonora assemblata con 60 pezzi da Randall Poster. 

Detto questo, un pensiero va ai benpensanti e bigotti che si affannano a descrivere questo film come eticamente scorretto, ai quali mi piace ricordare che il cinema non nasce per educare la popolazione, ma per raccontare storie. I personaggi sono personaggi e la simpatia per il protagonista non è forse la stessa che abbiamo provato tutti per per Toni Montana in entrambe le versioni di Scarface, per Alex in Arancia meccanica, per i Corleone de Il Padrino, per tutti Quei bravi ragazzi, per i protagonisti di decine di western (non certo moralmente corretti, basti pensare all'Ethan Edwards interpretato da John Wayne in Sentieri selvaggi)? E la lista potrebbe proseguire all'infinito... quindi buona visione a tutti quelli che ricorderanno di essere al cinema e un'ultima cosa: ricordatevi di ridere, ridere tanto!

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